Importante pronuncia della Suprema Corte di Cassazione che con sentenza del 31.03.2023 n. 9095 ha sancito che costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile.
Come noto, il periodo di comporto consiste in un periodo di tempo ben determinato, in cui il lavoratore, pur assente dal lavoro per malattia, ha il diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro.
In altre parole, il lavoratore non può essere licenziato per il semplice fatto di essere malato.
Solitamente, il contratto collettivo (CCNL) prevede due ipotesi:
(i) il comporto secco, ovvero il termine di conservazione del posto nel caso di un’unica malattia di lunga durata e (ii) il comporto per sommatoria, ovvero il termine di conservazione del posto nel caso di più malattie.
Scaduto il termine di comporto, il lavoratore può essere licenziato anche se malato.
Ebbene, nel caso del lavoratore disabile, la Cassazione ha precisato che “il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente”.
La discriminazione indiretta, nel caso in esame, è consistita quindi “nell’irrogazione del licenziamento (per assenza dal lavoro per 375 giorni nell’arco di 1095 giorni), dovendosi presumere (nonostante l’invio, non riscontrato dal lavoratore, di avviso dell’approssimarsi del comporto) che le assenze per malattia fossero riconducibili alla situazione di disabilità del lavoratore per l’assegnazione a mansioni incompatibili con il suo stato di salute”.
In particolare, è stata ravvisata un’ipotesi di discriminazione indiretta, che ricorre, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 216/2003 (normativa di attuazione della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone“.
La sentenza in esame non ha altresì mancato di ricordare che incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa. Infatti, nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all’art. 4 del D.Lgs. 216/2003, che non stabiliscono tanto un’inversione dell’onere probatorio, quanto, piuttosto, un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo una “presunzione” di discriminazione indiretta per l’ipotesi in cui abbia difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta.